Meditare camminando, per la pace

Rosa Manauzzi* ha intervistato Bar Zecharya, camminatore di pace, cittadino israeliano e da qualche anno italiano, convinto assertore della pace tra i popoli e seguace del monaco Thich Nhat Hanh.

L’intervista è servita, a livello conoscitivo, per la stesura di un articolo, sulle tecniche del benessere, che uscirà prossimamente (mese di settembre) sul Magazine digitale di Buonenotizie.it

Dato che l’articolo apparirà probabilmente in altra forma e con i tagli necessari agli spazi del giornale, è interessante seguire invece il pensiero integrale di Bar e anche l’incontro tra anime che c’è sempre dietro alla preparazione di un pezzo. Ogni intervista, e ogni articolo, per me è davvero come un nuovo mondo che si manifesta davanti ai miei occhi assetati di conoscenza.

Rosa Manauzzi

1. Bar, tra le modalità per raggiungere la consapevolezza, e attraverso questa la pace (con te stesso e con gli altri), hai scelto la meditazione? Puoi dirci che cos’è secondo te?
La meditazione è un atto d’amore. Abbiamo tutti l’aspirazione profonda di essere felici, di vivere in armonia con le persone intorno, di sentirci salvi e di avere il cuore in pace. Quando rallentiamo i pensieri e calmiamo corpo e cuore, ci stiamo già comportando in modo amorevole con noi stessi. La nostra calma, la nostra gentilezza e la nostra presenza autentica diventano poi veri e propri regali d’amore ai nostri parenti, ai nostri amici e a coloro a cui vogliamo bene.

2. Che tipo di meditazione hai scelto di praticare?
Inspiro, mi sento presente nel corpo.
Espiro, rilasso il corpo.

Inspiro, sono cosciente delle mie emozioni.
Espiro, con compassione le lascio andare.

Bastano solo alcuni respiri per riportarci al momento presente, per riportare la mente al corpo. Lo possiamo fare anche adesso!

L’energia che generiamo in questo modo si chiama consapevolezza, presenza mentale o mindfulness. Più siamo radicati nel momento presente, più siamo in grado di apprezzare i miracoli dentro e intorno a noi e più siamo capaci di affrontare le nostre difficoltà con una mente chiara. Per generare la consapevolezza non dobbiamo necessariamente sederci su un cuscino davanti a un altare: quando camminiamo, apriamoci alla realtà del camminare restando presenti a ciò che stiamo facendo. Quando mangiamo, mangiamo con tutto il nostro essere. Thich Nhat Hanh, maestro Zen e monaco vietnamita, insegna che ogni attività giornaliera è un’opportunità di far crescere la nostra energia di consapevolezza. Mangiare, camminare, lavarci i denti e aprire una porta sono tutti momenti in cui possiamo calmare la mente e aprirci alla realtà che è davanti a noi. Ogni respiro e ogni passo possono portare pace a noi stessi e agli altri.

3. Il tuo incontro con Thich Nhat Hanh ha cambiato profondamente la tua vita?
Ho incontrato per la prima volta Thich Nhat Hanh nel 1997 a Tel Aviv, dove tenne una conferenza pubblica prima di offrire un ritiro di consapevolezza. Nhat Hanh insegna la consapevolezza con i suoi discorsi e insegna con il suo comportamento, il suo modo di camminare, il suo modo di essere. La gioia e l’armonia nella sua comunità monastica e laica, compresa la comunità italiana, sono di grande ispirazione ed è difficile non essere toccato da questo tipo di impegno, di cura e di amore. La sua storia personale mi ha lasciato un’impressione fortissima. Nel suo paese durante la guerra civile non ha voluto schierasi con nessuna delle parti, tranne quella della riconciliazione. A Gerusalemme, dove vivo la maggior parte dell’anno, questo messaggio è estremamente attuale, e lo è anche per noi in Italia.

4. In Italia la meditazione non è ancora molto praticata ed è solamente un rituale di coloro che abbracciano la filosofia buddista. E’ possibile scindere le due cose? Ovvero, occorre essere buddista per praticare la meditazione?
Non sono buddista, quindi spero di no! Tornare al respiro e al momento presente per svegliarci al miracolo della vita non è buddismo: è la nostra eredità come esseri umani.

5. Da quanti anni sei in Italia?
Sono venuto in Italia per la prima volta nel 2000, e nel 2009 ho preso anche la cittadinanza italiana. Ultimamente passo la maggior parte del tempo a Gerusalemme ma continuo a tornare in Italia spesso: ho tanti amici qui e vengo frequentemente anche per nutrirmi della forte comunità italiana che pratica la vita consapevole, compreso WakeUp: il movimento di giovani italiani che aspirano a vivere in armonia, gioia e consapevolezza. In Italia ci sono paesaggi stupendi e città di una bellezza squisita. Non viviamo con la paura di bombe o di attentati, abbiamo tutto ciò che ci serve per essere in contatto con le cose positive della vita. Svegliarci a questa possibilità ci può rendere capaci di affrontare al meglio le nostre difficoltà.

6. Nella tua esperienza cerchi di diffondere la meditazione per proporre un diverso approccio ai conflitti personali ma anche ai conflitti del medio Oriente. Dall’esterno sembra un progetto molto ambizioso. Quali risultati sei riuscito ad ottenere?
I grandi conflitti sono creati e alimentati dai piccoli conflitti. Anche se Israele e Palestina firmassero un accordo di pace domani, la paura, il dolore e la tendenza di vedere l’altro come un nemico rimerebbero. Per aiutare gli israeliani a vedere che il loro benessere è legato a quello dei palestinesi e viceversa, dobbiamo addestrarci noi per primi a calmare la rabbia e la paura che si trovano nel nostro cuore. Se non siamo capaci di farlo noi, cosa possiamo aspettare da altri che vivono in condizioni più difficili?

In Israele e in Palestina ci sono molte persone che si impegnano a favore della pace e della riconciliazione, dalla quale abbiamo molto da imparare, ed è una gioia sostenerli e organizzare insieme ad altre persone incontri, giorni di consapevolezza e ritiri. Mi trovo molto commosso quando vedo persone scoprire i benefici della consapevolezza e questo mi dà sempre più motivazione, sopratutto a coltivare la consapevolezza in me stesso. Mi ritengo molto fortunato ad assistere gruppi di praticanti italiani a visitare la Terra Santa in un contesto di consapevolezza e apertura. Da questi incontri tutti – italiani, palestinesi e israeliani – tornano a casa con la sensazione di aver arricchito la loro vita di un mezzo in più per portare la pace nella loro vita e nella loro società.

7. Con quale comunità pratichi la vita consapevole?
Il maestro Thich Nhat Hanh è in Italia dal 30 agosto al 6 settembre: a Milano per una conferenza pubblica e un giorno di consapevolezza, e a Roma per un ritiro, una meditazione camminata e una conferenza pubblica. Per maggior informazioni sugli eventi: www.esserepace.org/lapaceinazione

EsserePace, la comunità italiana che segue l’insegnamento di Thich Nhat Hanh, è molto attiva sul territorio. Organizza incontri settimanali, giorni di consapevolezza e ritiri in molte città italiane.

WakeUp Italia è il movimento dei praticanti under-35. E’ un piacere aver a che fare con giovani così motivati e gioiosi, danno molta speranza per il nostro futuro.

Plum Village, il monastero in Francia dove Thich Nhat Hanh vive e insegna.

In Israele, la Community of Mindfulness in Israel offre ritiri e giorni di consapevolezza in inglese.

*Rosa Manauzzi (Latina, 1971) è scrittrice, giornalista pubblicista, studiosa appassionata di tecniche per il benessere e insegnante di qigong. Si occupa di letteratura e culture del mondo sotto una prospettiva sociologica e comparatistica, medicina naturale, ecologia, biodiversità culturale.
http://www.culturelibere.com
  http://www.qigongtaijicentre.com

Llamadme por mis verdaderos nombres

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Al Plum Village (Francia) dove ho avuto la fortuna di passare un paio di settimane a giugno, oltre alla presenza mentale, la stabilità interiore e l’armonia fra persone, si addestra anche la pigrizia! Per tanti di noi non è facile stare fermi, senza far niente, senza dover far niente, e sentire la profonda sensazione che “questo è abbastanza”. Là è facile vedere la gente seduta a godersi un thé, a guardare i fiori, a sorridere solo perché quella spinta interiore a “fare qualcosa” si è placata un po’.

Nello spazio creato dallo smettere di “fare qualcosa” una gioiosa creatività emerge, insieme ai suoni di chitarra, di flauti, di voci.  Come questa canzone in spagnolo: “llamadme por mis verdaderos nombres”. E’ una poesia di Thich Nhat Hanh, messa in musica e cantata da Ana Badosa.

Ecco il testo in spagnolo e poi tradotto:

Llamadme por mis verdaderos nombres
No digáis que partiré mañana, pues aún estoy llegando
Mirad profundamente, estoy llegando a cada instante
para ser brote de primavera en una rama
para ser pajarillo de alas aún frágiles
que aprendo a cantar en mi nuevo nido
para ser mariposa en el corazón de una flor
para ser joya oculta en una piedra

Aún estoy llegando para reír para llorar
para temer para esperar
El ritmo de mi corazón
es el nacimiento y la muerte de todo lo que vive
de todo lo que vive… de todo lo que vive

Mi alegría es como la primavera
tan cálida que florece la tierra entera
Mi dolor es como un río de lágrimas
Tan vasto que llena los cuatro océanos
Llamadme por mis verdaderos nombres
os lo ruego para poder despertar
Que la puerta de mi corazón pueda quedar siempre abierta
la puerta de la compasión

Llamadme por mis verdaderos nombres
os lo ruego

Chiamatemi con i miei veri nomi
Non dite che partirò domani, perché sto ancora arrivando
Guardate profondamente, sto arrivando in ogni istante
Per essere un germoglio di primavera su un ramo
Per essere un uccellino con le ali ancora fragili
che impara a cantare nel mio nuovo nido
Per essere una farfalla nel cuore di un fiore
Per essere un gioiello nascosto in una pietra

Sto ancora arrivando per ridere per piangere
per temere per sperare
Il ritmo del mio cuore
è la nascita e la morte di tutto che vive

La mia allegria è come la primavera
così calda che fa fiorire la terra intera
Il mio dolore è come un fiume di lacrime
così vasto che riempie i quattro oceani

Chiamatemi con i miei veri nomi
vi prego, per potermi svegliare
Che la porta del mio cuore
possa rimanere sempre aperta
la porta della compassione

Chiamatemi con i miei veri nomi
vi prego

Perché scrivere una lettera d’amore a Berlusconi

Grazie a Silvia per aver contestualizzato la mia lettera d’amore al nostro Silvio.  Nell’ultima settimana sono arrivate reazioni di tanti tipi, con suggerimenti su come migliorarla, dubbi sull’efficacia della lettera, speranze, condivisioni sulla trasformazione personale e altro.

La possibilità di vedere la propria pratica attraverso gli occhi degli altri, con l’apprezzamento, i dubbi, le integrazioni e condivisioni di altri punti di vista, è uno stimolo prezioso all’ulteriore crescita.  E’ anche affascinante come una cosa apparentemente semplice come una lettera possa toccare tanti ambienti diversi, dal nostro modo di relazionarci con l’altro genere al cambiamento sociale, e come in ognuno di noi certi temi risuonano con intensità diverse.   Finora più di 350 persone hanno letto la lettera, e da alcuni ho ricevuto bei messaggi e richieste su come trovare un gruppo di meditazione.  Se anche una sola persona ne avesse trovato beneficio, riducendo la sua sofferenza e rafforzando la sua pace, l’azione di scrivere avrebbe già superato tutte le aspettative. Vorrei quindi rispondere a una domanda molto ricorrente: perché scrivere una lettera d’amore a Silvio Berlusconi e che cosa si può aspettare da un’azione del genere?

La lettera l’ho scritta a Silvio, ma non necessariamente per Silvio.  Scrivere una lettera d’amore è stato un ottimo esperimento, una sfida che ha messo alla prova la mia capacità di calarmi nei panni di un’altra persona.  La capacità di uscire dai soliti confini e dall’identificazione con i miei interessi e le mie credenze è una qualità che vorrei sviluppare.  Come ho già menzionato, sono dovuto andare oltre a questo o quell’altro caso specifico e guardare in profondità l’oggetto della mia meditazione, e so che migliorare anche questa capacità porterà molti benefici nel futuro. In più, la pratica mi ha dato l’opportunità di riflettere sul percorso che ho attraversato nell’ultimo anno, cadendo più frequentemente di quanto volessi ammettere nella confusione fra ciò che davvero desidero e “le poco soddisfacenti vie per soddisfarlo”, uscendone però con più chiarezza e comprensione.  Cioè, per poter capire meglio Silvio ho dovuto capire meglio me stesso.

Un altro beneficio è stato quello di rafforzare in me la motivazione di “tornare a casa”, in modo quantitativo e qualitativo.  Per tutti questi motivi la pratica della lettera d’amore è stata molto forte e la consiglierei a tutti, anche se il destinatario non è proprio lui.  Nel passato ho scritto una lettera d’amore anche ai miei genitori e ad amici, e forse la lettera più significativa è stata quella destinata a me stesso.  Non una lettera di complimenti che esagera i propri punti positivi, ma una lettera che riconosce anche le debolezze e ti lascia con quella sensazione dolce di voler prenderti cura di te stesso, di fare, dire e ascoltare le cose davvero nutrienti.

Quando facciamo qualsiasi azione, c’è l’idea che quell’azione serva a uno scopo ben definito e identificabile.  Al mio parere, questo è un’illusione.  Quando suoniamo la campana, il tono arriva a 360 gradi; non è possibile suonare la campana in una direzione particolare, non ha senso.  E’ lo stesso con il profumo di un bastoncino d’incenso.  E anche le nostre azioni, che siano gesti, parole o perfino pensieri, hanno un effetto a 360 gradi.  Sopratutto siamo noi a subirne o goderne gli effetti perché portiamo quella campana con noi per tutta la vita!  Se scegliamo però uno dei 360 gradi come obbiettivo e ci attacchiamo ad esso ignorando il resto, aumentiamo la probabilità di rimanere frustrati e rancorosi anche se quell’azione ha fatto tanto bene in altri campi.  Sul tema di una visione olistica Karl Riedl ha tenuto un discorso a Pomaia il 21 agosto molto pertinente e pratico, spero che nel futuro sarà disponibile sul Internet.

Ovviamente, come alcuni di voi hanno menzionato, se mettessimo le nostre campane a suonare insieme, l’effetto sarebbe più forte e capace di risuonare con più intensità.  Anche in quel caso però si tratta di maggior intensità, non della capacità di indirizzare gli effetti della nostra azione.  Il fatto di non avere controllo non è niente da rimpiangere, secondo me.  Anzi, è una cosa davvero bellissima!  E’ un richiamo a controllare bene che il suono della nostra campana, che la fragranza del nostro incenso, sia dolce in ogni momento a prescindere del risultato specifico che speriamo di ottenere.  Per me almeno quest’immagine aiuta a rafforzare simultaneamente sia l’impegno personale e sociale che un’umiltà davanti alla complessità dell’universo e la rete di causa ed effetto fra le cose.  (Un esempio di armonizzazione delle nostre campane sarebbe incontrarci pubblicamente giovedì prossimo, il 29 settembre, a festeggiare il compleanno del nostro fratello Silvio, a invitarlo a tornare a casa in entrambi i sensi e a sostenerlo attraverso il nostro impegno, leggendo i cinque addestramenti alla consapevolezza e condividendo su come applicarli, spiritualmente offrendogli qualsiasi frutto che potremmo generare con la nostra pratica.)

Quindi, aspettare che le mie parole possano cambiare un’altra persona sarebbe naive e senza contatto con la realtà.  Dall’altra parte, la credenza che l’Italia sarebbe migliore se solo una singola persona non ci fosse è ancora più fantastica.  Thich Nhat Hanh ci insegna a tenere fra le dita un fiammifero e a chiedere alla fiamma “cara, da dove viene e dove andrai?”.  Per scrivere la lettera a Silvio ho dovuto chiedergli la stessa domanda.  Come sapete, i politici non sono noti per l’affidabilità e non posso garantire che vi darà la stessa risposta :).  Comunque sia, per aiutare i nostri politici dobbiamo aiutare il loro pubblico, e per fare questo dobbiamo essere in grado di mettere le nostre energie non ai piccoli drammi e confini che normalmente riempiono le nostre vite, ma alla stabilità e all’armonia necessarie per dar vita a una trasformazione sociale.  Come sappiamo, qui la pratica di tornare a casa può essere molto utile.

Grazie per l’ascolto, sarò contento di continuare la conversazione, con condivisioni o con il Silenzio.
Un fiore di loto,
Bar

Gerusalemme, Israele
Pianeta Terra

Disinnescami

Se io fossi una bomba
pronta ad esplodere,
se io fossi diventato
pericoloso alla tua vita,
dovresti quindi prenderti cura di me.
Pensi di poter scappare da me,
ma come?
Sono qui, proprio in mezzo a voi.
(Non mi puoi togliere dalla tua vita.)
E potrei esplodere
in qualsiasi momento.
Ho bisogno della tua cura.
Ho bisogno del tuo tempo.
Ho bisogno che tu mi disinneschi.
Sei responsabile per me,
perché hai fatto voto (e l’ho sentito)
di amare e di prendere cura.

So che per prenderti cura di me
hai bisogno di molta pazienza,
molta calma.
Mi rendo conto che anche in te
c’è una bomba da disinnescare.
Quindi perché non ci aiutiamo l’un l’altro?

Ho bisogno che tu mi ascolti.
Nessuno non mi ha ascoltato.
Nessuno capisce la mia sofferenza
compresi coloro che dicono di amarmi.
Il dolore dentro di me
mi sta soffocando.
E’ la TNT
di cui la bomba è composta.
Non c’è nessun altro
che mi ascolterebbe.
Perciò ho bisogno di te.
Sembra però che tu ti stia allontanando
Vuoi affannarti per la tua sicurezza,
una sicurezza che non esiste.

Non ho creato io la mia propria bomba.
Sei tu.
E’ la società.
E’ la famiglia.
E’ la scuola.
E’ la tradizione.
Quindi per favore non mi dare la colpa.
Vieni ad aiutarmi;
se no, esploderò.
Questo non è una minaccia.
E’ solo una supplica.
Ci sarò per aiutarti
quando toccherà a te.

Scritta da Thich Nhat Hanh, monaco vietnamita, durante la guerra americana.
Commenti e miglioramenti della traduzione sono benvenuti.


Cosa possiamo fare?

Ci sono due domande che sto ricevendo in questo periodo. La prima è cosa sto vedendo di prima persona in Israele e la seconda, forse retorica, è cosa possiamo fare di fronte a così tanta sofferenza.

Comincio con la prima. Questa volta Gerusalemme sta fuori della zona di conflitto e quindi le esplosioni e le bombe che ricordo dal periodo di 2000-2002 non ci sono, e neanche le sirene e i rifugi da quando cadevano i missili lanciati da Saddam Hussein nella prima guerra del Golfo. Devo dire però che questa settimana per errore la sirena ha suonato a Gerusalemme. Stavo prendendo un cappuccino e un cornetto a casa, godendomi la schiuma con consapevolezza, quando sentivo questo suono che significa l’arrivo di un razzo o un missile. Cercavo di rimanere calmo, ricordare dov’era il rifugio di quartiere, tenere lontana l’immaginazione. Ovviamente se io ci fosse stato durante la guerra del Golfo e se avessi nella memoria la distruzione, come ho la memoria degli attentati e dei morti del ’00-’02, sicuramente avrei avuto molto più difficoltà a rimanere calmo.

Oltre questo, anche se non sto vedendo la tragedia di Gaza, la guerra è evidente anche qui. Come non può essere? Le persone qui hanno vissuto guerre di difesa, guerre di scelta, attacchi suicidi. C’è chi pensa che la guerra non ha un impatto sulla personalità? Ma la guerra non è solo una cosa politica o storica, che comincia e poi finisce come una tempesta. La guerra continua, la tempesta continua, nelle paure di ogni individuo. Si esprime nel traffico, nei clacson e negli incidenti; nello sguardo che tutti danno ogni volta che una persone sale sul autobus, controllando se è un terrorista o no; si trova nella violenza domestica e nel buttarsi pienamente in cose “controllabile” come lavoro; e si trova nell’insoddisfazione generale, nelle paure represse sotto altre paure represse. Al mio parere, queste cose non sono solo i risultati della guerra ma anche le sue cause. Persone arrabbiate, frustrate, traumatizzate hanno difficoltà a non percepire il mondo in termini di minaccia e difesa.

Questa cosa è uguale per arabi che per ebrei. Le radici delle paure sono recenti e sono vecchie. Sono storiche e sono ideologiche, personali e famigliari. Israeliani e palestinesi, arabi e ebrei, hanno questo in comune: stanno annaffiando i semi della paura uno nell’altro ogni giorno della loro vita, in famiglia, a lavoro, per strada, in mercato e anche sul piano politico. Per questo motivo cerco di non interpretare gli avvenimenti politici come un gioco di scacchi: una parte fa questo, poi l’altra parte fa quello, poi la prima parte fa questo… giudicano o giustificando a “piacere”. Quando la gente si sente minacciata dall’altra parte e non ha degli strumenti per prendere un respiro e calmasi, arriva l’odio, la violenza e la guerra.

Forse è un po’ più chiaro perché chiedo agli italiani di non prendere una parte e invece di aiutarci a riconciliarsi. Con una zuppa già strasalata di paura e di odio, aggiungere più sale aggrava l’animosità. Vedo gruppi di europei e americani che vengono a sostenere la loro parte preferita, rafforzando l’impressione che l’altra parte è un mostro che non cambierà mai, quindi la violenza è giustificata. Sia gli “israestinesi” che gli “ameuropei” tornano a casa arrabbiati e portano la guerra nei loro cuori.

Nonostante il mio amore per le cose salate e amare, dai capperi al radicchio passando per la cicoria (mmmm la cicoria…), sono pronto a sacrificare i miei gusti per chiedere un po’ di dolcezza. E’ chiaro che, se gli israeliani e i palestinesi cantassero di più, guardassero di più il cielo azzurro, si aprissero di più ai loro cari in merito alle loro paure, farebbero la guerra di meno? Potete dire che sto parlando di utopia, ma non è più utopico che andare a una manifestazione di “sostegno”. Parliamo chiaramente. Questa guerra è fatta di tanta sofferenza e tanta rabbia e non c’è niente che possiamo fare che la fermerebbe tutta e subito. Cercare di farlo sarebbe tentare di forzare la pace su persone che non sanno neanche cosa sia la pace. Però, com’è vero che un atto di violenza aggrava la situazione un po’, un atto di amore, un atto di comprensione e di compassione, anche piccolo, aiuta la situazione.

Se non sappiamo neanche noi cosa siano la pace e la dolcezza come le possiamo offrire agli altri? Se vorremo che gli israeliani e i palestinesi prendono un respiro quando vedono la guerra di prima persona, dobbiamo essere capaci di farlo almeno quando leggiamo le notizie sulla guerra. La rabbia, l’odio e la paura già c’è l’hanno e sono molto più bravi di noi in questo. La pace, la stabilità e la gioia, sì, proprio la gioia, è quello di cui hanno più bisogno. E solo sviluppando la stabilità e la gioia dentro di noi possiamo aiutare, altrimenti stiamo aggiungendo ancora il nostro pizzico di sale.

Questo è già tanto. I percorsi che le emozioni prendono da una persona a un’altra e poi a un’altra sono molto più complessi di quanto pensiamo e se cercassimo di indirizzare la nostra pace a una certa zona sul pianeta, forse diventeremo delusi. Comunque, dopo aver lavorato per sviluppare la nostra pace c’è tanto che si può fare. Potete invitare israeliani e palestinesi in Italia per un ritiro di meditazione, ascolto profondo e rilassamento profondo, come fa Thich Nhat Hanh nel suo monastero Plum Village in Francia. Potete informarvi su altri progetti del genere come Seeds of Peace (Semi della Pace). Invitare “palestraeliani” alle sagre di paese, al palio di ferragosto, ai cori popolari? C’è chi parla di un “stimolo di pace” economico per Gaza o la necessità di finanziamento di progetti di educazione per la pace. Praticamente qualsiasi progetto nel quale potete far vedere agli israeliani e palestinesi, insieme o separatamente, cosa sia la pace, cosa sia la dolcezza, come godere e rendere omaggio al miracolo della vita, come si risolvono i conflitti, sarà di grande aiuto.

Anche se i risultati non siano immediati o totali è molto meglio che aggiungere più sale. Per fare tutto ciò però, chiediamoci se abbiamo approfondito abbastanza la nostra pace o se ci conviene essere in più contatto con la natura, con le nostre emozioni, se abbiamo tempo per praticare le tecniche della consapevolezza con persone d’esperienza.

Finisco con una citazione, sempre del maestro Thich Nhat Hanh, del suo libro “Essere Pace”. Mi dispiace che è in inglese: se qualcuno ce l’ha in italiano e mi manda la traduzione lo cambierò volentieri.

Many of us worry about the situation of the world. We don’t know when the bombs will explode. We feel that we are on the edge of time. As individuals, we feel helpless, despairing. The situation is so dangerous, injustice is so widespread, the danger is close. In this kind of a situation, if we panic, things will only become worse. We need to remain calm, to see clearly. Meditation is to be aware, and to try to help.

I like to use the example of a small boat crossing the Gulf of Siam. In Vietnam, there are many people, called boat people, who leave the country in small boats. Often the boats are caught in rough seas or storms, the people may panic, and boats may sink. But if even one person aboard can remain calm, lucid, knowing what to do and what not to do, he or she can help the boat survive. His or her expression – face, voice – communicates clarity and calmness, and people have trust in that person. They will listen to what he or she says. One such person can save the lives of many.

Our world is something like a small boat. Compared with the cosmos, our planet is a very small boat. We are about to panic because our situation is no better than the situation of the small boat in the sea. You know that we have more than 50,000 nuclear weapons. Humankind has become a very dangerous species. We need people who can sit still and be able to smile, who can walk peacefully. We need people like that in order to save us.


Buon fine settimana, auguro a tutti noi qualche passo verso la pace e la gioia.

Bar
Gerusalemme, Israele
Pianeta Terra

L’illuminazione di Elvira

Secondo il maestro Zen Thich Nhat Hanh e tanti altri, l’illuminazione non è limitata a certi santi o uomini straordinari che meditano per ore nella foresta. Certo che la meditazione è uno strumento molto efficace nel calmare le emozioni e sopratutto le abitudini mentali che ci accecano. E’ ovvio anche che il contatto con la natura è prezioso. Invece di “l’illuminazione” però ci sono tante illuminazioni, piccoli momenti di chiarezza in cui ci rendiamo conto di quali sono le nostre abitudini mentali e l’impatto che hanno su come percepiamo il mondo e come reagiamo al mondo. Con questa consapevolezza viene una trasformazione: sottile, naturale, quasi impercettibile, ma che più tardi rendiamo conto che le nostre relazioni sono un po’ più sane, che siamo un po’ meno arrabbiati/tristi/impauriti e che le persone che ci sono intorno l’hanno percepito in qualche modo e stranamente sono più felici loro.

Vi copio una lettera che ho ricevuto da Elvira, una praticante italiana molto coraggiosa per il suo percorso e per aver dato l’ok a pubblicarla.

Caro Bar,
sento di doverti ringraziare, dal profondo del mio cuore, per gli insegnamenti preziosi e sinceri, senza retorica, che sto ricevendo da te in questo ultimo periodo. Condivido pienamente quello che dici, la guerra è principalmente nei nostri cuori, non c’è ragione che tenga, la guerra è una condizione, uno stato mentale, che se non trasformato, genera altra guerra e altro dolore.

Stamattina ho iniziato la giornata in guerra. Ho litigato con mia madre e con mia figlia e sono arrivata in ufficio con il cuore in tumulto e i lineamenti alterati. Anche per me si trattava di rivendicare il diritto alla mia indipendenza, al rispetto dei “miei” confini. E ultimamente sto avendo problemi con la mia vicina di casa, per via del pavimento del mio bagno, che “confina” con il suo soffitto. Confini, sempre confini. Non posso quindi stranirmi quando alla televisione vedo immagini di guerra: è la stessa, solo portata un po’ più avanti, ma fatta della stessa natura.

Questo mi spaventa. Io, che mi ritenevo una persona tutto sommato quieta, calma, equilibrata, con le persone più care e vicine entro in conflitto. Per questo le tue parole stamattina sono state come un balsamo su una ferita. Amorevolezza, gentilezza, pazienza…

Posso portarti un po’ di capperi sotto sale?

Ti abbraccio, con gratitudine. A presto.
Elvira

Cara Elvira, grazie per la tua lettera. Dici che sei spaventata ma vedo che hai già trovato un po’ di sollievo. Vedo anche che sei già riuscita a trasformare un po’ della “durezza del cuore” che era dietro i conflitti che descrivi, trasmessa a quel momento da tanti momenti di durezza nella vita tua e nella vita della vicina di casa. Adesso, invece di continuare questa trasmissione stai già trasmettendo qualcosa di diverso. La pace la stai già facendo… per te stessa, per le persone che incontrerai oggi, per me e per tutte le persone con cui intersiamo.

Applied Buddhism and the Israeli-Palestinian Conflict

E’ tanto che non scrivo, tra poco metterò in linea delle parole, anche se la macchina fotografica si è rotta…

Nel frattempo aggiungo un link a un mio discorso, “Buddismo Applicato e il conflitto Israeliano-Palestinese” (in inglese) appena pubblicato in Mandala Magazine, appropriato purtroppo anche agli eventi di questi giorni.

La campana ovvero Lo Zen e l’arte della forchetta

“Non dovresti mirare all’obbiettivo ma a te stesso. Se lo fai così, colpirai te stesso, il Buddha, e l’obbiettivo tutti insieme.”

Eugen Herrigel, Lo Zen e l’arte dell’arcere

Nella tradizione Zen di Thich Nhat Hanh si usa la campana per cominciare una sessione di meditazione seduta. La tecnica di suonare non è proprio quella di uno strumento musicale qualsiasi – o forse dipende dal musicista. Prima di suonare, si prende un respiro e si porta l’attenzione alla campana, alla bacchetta che ha in mano, a se stesso. Non c’è nessun altro luogo dove dovrebbe stare e può semplicemente stare lì. Tra un suono e un altro si prendono tre respiri e si posa la bacchetta.

Finché non ho provato questa tecnica non avevo capito perché posare la bacchetta. Tre respiri che saranno, qualche secondo? Non sarebbe meglio tenere la bacchetta lì pronta? Invece no. Tenendo la bacchetta pronta stai tenendo te stesso pronto, che vuol dire che stai già nel futuro, aspettando la fine dei tre respiri e perdendo il suono del momento, il respiro del momento, te stesso del momento. Appoggi la bacchetta e torni alla realtà, che non è tanto male. Veramente è un piccolo gesto che cambia tutto. Come direbbero i maestri Zen, non stai suonando per l’obbiettivo di suonare, suoni per essere presente suonando.

Lo stesso principio vale ugualmente in cucina. Stai lì al tavolo, con un piatto di fettuccine o di risotto davanti agli occhi e la forchetta in mano. Tra un morso e un altro, cosa fai con la forchetta mentre mastichi? La tieni lì, sopra il piatto pronta per il prossimo morso? Se siete come me l’avete già appesantito di cibo quando la bocca è ancora piena della forchettata precedente. Mangi, mastichi, la forchetta fa avanti e dietro, ma la forchetta e la mente stanno sempre un passo avanti e alla fine hai perso tutto il carciofo. Che peccato.

Ho posato la forchetta e ho iniziato a mangiare davero davero, forse per la prima volta. Senza che io lo sapessi una grande parte della mia mente era impegnata nel tenere la forchetta pronta, anche se era un azione ormai involontario. Con il braccio giù e la forchetta posata per tavolo, improvvisamente mi trovo libero di gustare il cibo, di apprezzare meglio l’ambiente e la compagnia. Tutto diventa molto più vivido e allo stesso momento svaniscono le preoccupazioni e i pensieri che normalmente fanno da contorno. Mangiare per essere presente mangiando. Mira a te stesso e colpisci te stesso, ma anche i sapori, gli odori e i colori, che fin’ora perdevi.

Buon appetito!

L’unica via d’uscita


In your head, in your head they’re still fighting,
With their tanks and their bombs,
And their bombs and their guns.
In your head, in your head, they are crying…
In your head, in your head,
Zombie, zombie, zombie.

Non mi sentivo comodo seguire le indicazioni per Dachau in moto. Qualsiasi altro mezzo – macchina, TIR, carro armato – sarebbe stato più appropriato. Ma questo è il mezzo che ho scelto e come una brava compagna mi sosteneva lungo il sentiero d’asfalto 20 km da Monaco.

Visitare un campo di concentramento non è uno shock quando sei cresciuto con la memoria della Shoah. I campi fanno parte ormai della geografia emotiva; i luoghi, le date e i personaggi sono elementi della storia famigliare. Cioè, le foto dei liberatori non sono più sconvolgenti e i racconti dei sopravvissuti sembrano seguire temi già conosciuti. Sei impermeabile agli stimoli.

Essere impermeabile agli stimoli però vuol dire anche essere chiuso, forse ermeticamente. Ed essere chiuso vuol dire che gli stimoli già entrati, sensoriali ed emotivi, rimangono dentro senza possibilità di riconoscimento o di trasformazione.

Di che materiale è fatta questa chiusura per la gran parte di noi? Secondo me di idee, di concetti e di storie: mi identifico con il mio gruppo, le ingiustizie perpetuate dalle singole persone del tuo gruppo alle singole persone del mio gruppo diventano ingiustizie perpetuate da te a me. Non devi aver ereditato le memorie delle persecuzioni e i pogrom: un gruppo può essere religioso, etnico, politico, economico, sportivo, nazionale e così via. Ascolta le tue identità e sentirai non solo quali sono i tuoi gruppi ma anche “gli altri” in confronto ai quali le storie che ti definiscono non sarebbero possibili. Dov’è la destra senza la sinistra? I comunisti senza i fascisti? Religiosi/cattolici/chiesa senza laici? Romanisti senza Laziali? Ricchi senza poveri? Figli senza genitori? Non parlo storicamente (la storia) ma “storiemente” (le storie), concettualmente. Queste storie e i concetti semplicistici che implicano non sono soltanto maschere per le emozioni più basilari come l’orgoglio, la paura e la rabbia, ma le chiudono dentro di noi.

Il lato positivo è che la chiave che chiude dentro è la stessa che apre ed è sempre a portata di mano. Perciò è importante tornare – in questo caso fisicamente – alla storia, alla nostra storia e alle nostre storie con lo scopo di guardarle con occhi più maturi e più adulti.

Inevitabilmente i nostri concetti sono troppo semplici per la realtà e in quei momenti ci troviamo davanti ad una scelta. Uno, possiamo filtrare i dati che non corrispondono. Per esempio, saltare i racconti di come singoli residenti del paese di Dachau hanno cercato di aiutare gli imprigionati e hanno partecipato a una rivolta fallita e notare solo i diversi tipi di tortura e gli sperimenti sugli esseri umani. Oppure, possiamo cercare in modo attivo gli individui, l’individualità, le esperienze e le vite anche e specialmente quando i dati non sono congruenti con le storie nella nostra testa. La prima scelta gira la chiave dei nostri cuori e i nostri occhi nella direzione della chiusura, la seconda verso l’apertura e verso una comprensione più completa della realtà.

Continuo con l’esempio. Cercare l’individualità o l’umanità di una persona che ha torturato o ucciso non vuol dire giustificare o scusare. Vuol dire avere comprensione verso quella persona che non aveva altri mezzi per comportarsi diversamente e avere compassione sapendo che una persona così intrappolata dal suo odio e dalle sue paure non poteva conoscere la felicità. Come dice il monaco Thich Nhat Hanh, dopo avere letto di una ragazza di dodici anni stuprata e uccisa da un pirata,

Quando ricevetti la notizia di quella morte mi arrabbiai, ma dopo aver meditato per diverse ore mi resi conto che non potevo prendere le parti di quella ragazza e condannare il pirata. Vidi che se io stesso fossi nato in quel villaggio e fossi cresciuto nello stesso modo del pirata, mi sarei comportato esattamente come lui. Mettersi dalla parte di qualcuno è troppo semplice.

Se è troppo semplice metterci dalla parte della ragazza, quanto è semplice – e facile – metterci dalla parte di noi stessi, ovvero della nostra identità semplicistica! Cosa succederebbe se per un attimo lasciassimo in pace le storie, smettessimo di prendere un ruolo, di sentirci giustificati o di disumanizzare gli altri? Vi parlo dell’esperienza: lasciai Dachau con meno rabbia ma con determinazione, in pace e con un senso di speranza.

Non fraintendiamoci. Lasciare in pace le storie non significa dimenticare la storia. Senza la storia non c’è nessuna possibilità di entrare in contatto con la realtà passata, nessuna base sulla quale potremo mettere in questione le storie. Senza la storia non potremo ricordare i pericoli reali dell’orgoglio, della rabbia e dell’odio, né i tanti momenti di bellezza, di generosità, di apertura e di coraggio di fronte a quei pericoli. Ma possiamo lasciare in pace le storie che si raccontano da sole nelle nostre menti, che ci impediscono di vedere la realtà e che chiudono dentro le emozioni che ci causano di soffrire.

Qual’è la differenza tra metterti dalla parte di qualcuno e giustificare il suo comportamento? Ricordo che in America certi cristiani dicevano “odiate il peccato, amate il peccatore”. Solo quando vedi una persona nella sua umanità puoi vedere i perché dietro il comportamento, e da quel punto possiamo vedere che è in nostro potere di cambiare i perché futuri. Quando il mondo è pieno di mostri è logico avere paura e rabbia. Ma quando il mondo è pieno di condizioni che puoi cambiare è normale sentire coraggio e avere la pazienza.

Se “l’altro” non è più un mostro, cosa succede a “noi”? Se possiamo vedere l’altro come un essere umano è anche possibile vedere dentro noi stessi un mostro. Questa è la parte più difficile ma anche la parte che porta maggior soddisfazione. Come dicevo in il tuo vero potere, in ogni momento abbiamo la possibilità di trasformare la rabbia e l’odio. Invece di entrare in una sorta di relativismo, identificarci con l’altro ci porta a vedere esattamente quelle cose che possiamo davvero cambiare nel qui e ora. Lavorando con quelle cose vedremo effetti veri e visibili con il tempo.

E quindi troviamo una simmetria magica. Le storie, la semplicità, lo stesso pensiero che nega l’umanità creando inferni terrestri è anche lo stesso che ci fa soffrire al livello individuale. Dall’altra parte, girare la chiave nella direzione opposta non solo ci permette di vivere con più pace e meno rabbia. Ci permette di vedere i modi pratici con cui possiamo prevenire future tragedie.

Sei anni in Italia sono abbastanza per aver incontrato le principali storie italiane. Persone di destra parlano di “la sinistra” e viceversa come se l’altro fosse una forza monolitica senza faccia né individualità. Religiosi e laici pure. Qual’è il rischio di vedere l’umanità dell’altro? Il rischio è di confrontarci con le emozioni che stanno dietro le nostra identità, ma è proprio lì che si trova la chiave della nostra felicità. Quali sono le tue storie? Che emozioni nascondono e come ti impediscono di incontrare una realtà più complessa? Possono essere storie nazionali o storie famigliari, ma sono le tue storie e sarai la prima persona a sentire il sollievo quando giri la chiave.

L’unica via d’uscita da Dachau e da qualsiasi inferno creato dalle nostre storie viene percorsa su due ruote: la comprensione e la compassione.

La libertà

Cos’è la meditazione? Qualcosa di spirituale? di mistico? Una via per contattare livelli superiori della tua anima? Di conoscere altri mondi?

Nella tradizione del buddhismo zen vietnamita di Thich Nhat Hanh è qualcosa di molto più semplice. Calmando la mente e rilassando il corpo ci liberiamo dai pensieri ricorrenti, dalle paure che portiamo in qualche spazio oscuro nella mente, dalle sensazioni che spesso ci schiacciano tipo l’ansia e la rabbia. Tutte le cose che ci allontanano dalla vita reale o che ci impediscono di godere il momento presente.

Esci dalla macchina o dal autobus e devi fare cinque minuti a piedi fino a casa. Oppure sei fortunato e trovi parcheggio sotto casa e sono solo 20 metri. Cosa fai con quel tempo? Continui a rimuginare le parole del capo prodotte dalla sua ansia o pensi per l’ennesima volta a un progetto o qualcosa che desidereresti? Stiamo perdendo la vita che è di fronte agli occhi, camminando in un mondo con la testa in un altro, come zombi o morti viventi. Fermati, rilassa le spalle. Prendi un respiro profondo e senti le gambe in movimento. Magari c’è un albero che non abbiamo mai notato, un bambino, o forse stiamo con un amico o un compagno e invece di parlare di progetti o di lamentarci del lavoro possiamo prenderci per la mano e sentire grati per la loro presenza. O forse c’è qualcuno che ci aspetta a casa. Entrare a casa, liberi, leggeri e presenti, sarà un regalo molto più prezioso che un mazzo di fiori.

La meditazione seduta è un buono esercizio della nostra capacità di tornare a noi stessi con più facilita, ed è anche è un piacere in sé. E’ un bel esperienza qui a Hanoi, anche se per essere libero non avevo bisogno di prendere un aereo e contribuire al riscaldamento globale solo per imparare a mangiare un quarto di ananas con i bastoncini. Per essere libero basta metterci in contatto con quello che c’è.