Paradise place

“What is truth?”, the river-reeds mock me.
The olive trees join in the teasing: “… and what is the meaning of life?”
The wind bellows down the valley and laughs: “What is my role in the world?”

A young bird lands on a stone and distracts me from their game.
The river bubbles quietly between my toes
and the sun warms my back.

 

Se una mattina presto…

Se una mattina presto, tutta l’umanità svegliandosi scoprisse che tutti gli strumenti di guerra fossero scomparsi, che tutti i recinti e i muri fossero spariti, che neanche una pallottola, granata, carro armato o armatura si trovasse più sulla faccia della terra, ci spaventeremmo e, immaginando che altri farebbero lo stesso, ci metteremmo immediatamente a creare nuovi strumenti di difesa e deterrenza.

Se, però, una mattina presto tutta l’umanità svegliandosi scoprisse che la nostra paura fosse sparita durante la notte, che il nostro sospetto fosse scomparso, che l’egocentrismo non si trovasse più nel nostro cuore, anche se tutti gli strumenti di guerra e di difesa rimanessero intatti, ci stupiremmo della loro esistenza e non ne vedremmo alcuna utilità.

Coloro che sono compassionevoli e saggi, che augurano per se stessi e per i loro cari una vita libera dal conflitto, dallo scontro e dalla guerra, farebbero bene a riflettere sul primato del cuore e della mente in relazione alla realtà “esterna”, anche se mente e realtà esterna sono della stessa natura.

Sea!

Once upon a time
many many years ago
there was the great, great
sea.


The weight of the moon
as she circled the Earth
pulled
       and tugged on the sea.
Pushed
       and tugged.
The tides came
       and went
              and ebbed
       and flowed
in
       and out.
With the tide came waves
back
       and forth
              up
       and down
in
       and out.


Not on dry land did life first appear
       but among the flowing waves
and the rising tide
              and the back
and forth of the sea,
whose rhythms were reflected
in the first pulsations
of single-celled organisms.


Stay very, very still
and you will hear the sound of the sea.
       In
              and out.
In
       and out.
Our very breath reveals our origins
and the sea lives
       in the pushing
       and pulling
              in the tension
              and release
in the constant pulsations
of our heart.


We were conceived in the sea
of fluids created by our mother and father.
Back
       and forth.
In
       and out
as the primordial waters continued to flow.


And in the sea of our mother’s womb
we rested
as its rhythm echoed around us.


We are the amoeba, the spermatozoon,
the ovum.
We are the tadpole.
We are seventy percent water!
We are the sea.


Let’s listen again to our own song.


Sea forms an amoeba
and it is beautiful.
Sea forms a tadpole
and it is beautiful.
Sea forms a human body
and it is beautiful.
In the pulsations of the brain,
sea forms thoughts, ideas
       and feelings
and they are all beautiful!
And they are still Sea.


Press your hand to mine
and let us feel the ebb and flow.
The sea in our veins.
Together we are still seventy percent water!
Sea taking a form
to touch sea taking a form.

* * *

On dry land
sea walks.
       Sea produces thoughts of difference
       sea produces feelings of fear
and as the thoughts come
       and go
as the feelings rise
       and fall
sea forms throw rocks at sea forms.
Sea fires bullets at sea.
But how can sea kill sea?


Sea is neither killing sea nor dying.
Sea remains sea even if, among the amoeba,
       the tadpole, the human body
       or its pulsating brain,
sea rarely forms the thought
that recognizes sea as sea.


Come, let us go down
to the sea.
Let us listen to her song
       to our song
and as the tide rises with our breath,
ask:

“O Sea!
O Mother so vast and deep,
present in all of your forms.
You are our bodies, you are our thoughts.
Our joy and suffering
to you are only shifting and momentary waves,
but when you form joy, we are joy.
When you form suffering, we are suffering.
How can you permit this storm of confusion,
these waves of hate and discrimination?”


In
       and out.
Rise
       and fall.
Back
       and forth.


In
       and out.
Rise
       and fall.
Back
       and forth.

“Dear son, dear daughter,
I feel your concern, your desire
as they are sea forms like any other.
When concern forms in you,
       I have become concern.
When anxiety flows in the stream of your feelings,
       I have become anxiety.
They form
       and pass
They ebb
       and flow.
Whatever wave rises in your heart
I have become.

 

“Fear, concern, desire, confusion:
I am all of these.
How could it be otherwise?
Why do you expect Sea
to be anything other
than your very nature?

“Son, daughter, please listen,
return to your song, to my song.
Return to our shared rhythm
to hear yourself in me
to hear me in yourself
and in all sea forms.

“When the tide of compassion
rises in your heart
       – I am compassion.
When the wave of understanding
forms in the wet folds of your brain
       – I am understanding.

 

“Awake! And I will be awake.
Let me walk gently with your feet
upon my own sea body.
Let me look with your eyes
to admire my own sea splendor.

“It is with your lips
that I can smile upon my own sea form.
It is with your heart
that I can love.”

L’identità della pace

Secondo la stima cauta dell’ONU, più di 8.000 civili sono stati uccisi nel combattimento dal 20 gennaio. Non attribuisce la colpa. Però Human Rights Watch (HRW), un gruppo di ricerca e lobbismo, accusa le Tigri di tenere in ostaggio gli abitanti del loro primo feudo – e di uccidere alcuni che tentano di fuggire. E dice che l’esercito “ha bombardato senza distinzione zone densamente popolate, compresi ospedali, in violazione delle leggi di guerra.”

Bagno di sangue in Sri Lanka, “The Economist” 14.5.2009

Sono parole agghiaccianti di un altro conflitto tragico di temi conosciuti: la violenza, la lotta, la resistenza, il terrorismo, la guerra, la paura. Qui si tratta di indù e buddisti che non riescono a risolvere le loro differenze, tamil e cingalesi intrappolati nella confusione e nel odio.

Questa volta però le manifestazioni sono poche – ho letto di una sola a Palermo febbraio scorso, della comunità tamil. Con alcuni eccezioni, nel resto d’Italia e in Europa le emozioni rimangono calme, i dibattiti sono più rari e meno vociferi e pare che non è cosa degna di attenzione popolare. Dove sono le folle nelle piazze, le bandiere, i slogan? Dove sono i sostenitori dei diritti dei tamil contro l’aggressione buddista? Dove sono i pro-cingalesi che affermano il diritto di uno stato di difendersi contro il terrorismo?

Potremo dire che ci sono differenze fra i due conflitti, quello israeliano-palestinese e quello tamil-cingalese. Potrebbe essere però che la differenza più significativa nella nostra reazione non si trova lì in Asia occidentale o sud-est ma in noi. Cos’è che ci coinvolge così tanto di certe temi e non in altre? Quando leggiamo di Sri Lanka forse sentiamo un coinvolgimento più attutito mentre quando si discute il Medio Oriente i nostri cuori battano forte. Sia noi che crediamo di essere filo-palestinesi che noi che crediamo di essere filo-israeliani comportiamoci in un modo simile. E il fatto che siamo così divisi, e divisi fra le eterne faglie politiche italiane, punta al fatto che sotto le discussioni politiche c’è qualcos’altra. I filo-tamil e i filo-buddisti si dividono secondo i partiti politici classici?

C’è una barzelletta cattolica-americana: “Come sai se uno è cattolico?” “Se va a messa?” “No.” “Se fa la confessione?” “No.” “Allora?” “Se si vergogna ogni volta che il papa apre la bocca.” Credete che un americano d’origini cingalese avrebbe una reazione emotiva, a favore o contro che sia? Un americano cattolico, pur essendo ateista o protestante ormai da anni, sente il cuore batte quando il papa dice qualcosa di controverso. Come noi. Senza esserne coscienti ci sentiamo coinvolti. Ci identifichiamo con qualcosa.

La maggior parte degli italiani però non sono d’origini ebraiche, palestinesi, tamil o cingalesi. E quindi? L’identità è una strana cosa e non per niente razionale. Per tutta la vita siamo stati insegnati a prestare attenzione a certi temi, a identificarci con certe situazioni e persone. Siamo addestrati a provare emozioni davanti a certi simboli e non davanti ad altri. I motivi sono tanti, dall’antica disumanizzazione di un popolo alla guerra fredda; motivi storici, politici e anche personali e psicologici, dove c’entrano tutt’altro che gli oggetti della nostra attenzione. Il risultato è che siamo più propensi a riconoscere la sofferenza di alcuni e più propensi a chiudere il cuore davanti ad altri.

Ma non è questo proprio il problema? Là in Asia, come in altre parti del mondo, i conflitti violenti esistono perché le persone non riescono a identificarsi con gli altri. Questo è la base dei molti iniziativi di dialogo: imparare ad aprire l’orizzonte e il cuore alla esperienza del altro. Se vogliamo veramente aiutare, possiamo cominciare già adesso a sviluppare questa capacità. Noi filo-israeliani possiamo impegnarci a capire meglio le realtà dei palestinesi (e non “il punto di vista dei palestinesi”), e noi filo-palestinesi possiamo fare lo stesso con le realtà degli israeliani, nonostante che crediamo di già sapere tutto e di capire tutto. E possiamo tutti imparare ad aprire il cuore alle persone che siamo abituati a ignorare. Se non lo possiamo fare noi, che speranza c’è?

Facendo questo potremo scoprire tante cose. Uno, che la capacità di identificarci con più persone ci aiuterà a risolvere tanti conflitti nella vita quotidiana. Due, sapendo quanto è difficile sviluppare questa capacità, sentiremo più pazienza e compassione per gli altri che, come noi, hanno tanta strada da fare. Tre, anche se non possiamo risolvere tutti i conflitti subito, stiamo già diffondendo meno sofferenza nel mondo. Quattro, avendo gli occhi e il cuore aperti a chi ignoravamo l’esistenza, può essere che troveremo modi di aiutarli che non avremo visti altrimenti. Forse c’è qualcuno vicino a noi che ha bisogno del nostro aiuto.

Durante la guerra a Gaza ho provato a mettermi nei panni degli altri a 360°, dai giovani israeliani chiamati alla fronte ai politici e militari di Hamas e Israele, ai residenti di Gaza e del sud di Israele. Metterti nei panni di qualcuno non vuol dire accettare le cose che dice: a volte puoi sentire compassione per qualcuno che soffre così tanto che non riesce a identificare la radice della sua sofferenza. Già vedere che ci sono radici – e che non si tratta di un mostro – ci da la possibilità di cambiare le radici. E’ vero che facendo questa pratica non ho fermato la guerra. Credo comunque che è stato di beneficio e che grazie alla pratica ho diffuso la sofferenza in qualche misura ridotta dal solito, e i benefici non sono sempre immediati. Credo che rinforzando i propri pregiudizi e incapacità di sentire la compassione non risolve il conflitto neanche.

Ripeto. Se non possiamo noi imparare ad aprire gli orizzonti, verso chi siamo abituati a vedere come mostri o verso chi non siamo abituati a vedere proprio, non possiamo sperare che i nostri fratelli che vivono le guerra lo possono fare. E facendolo noi come esempio lo stiamo facendo anche più facile per loro.

L’ultima cosa. Che sono queste foto di scatole e scatole? Dopo la guerra sono andato ad aiutare un gruppo di israeliani che raccoglieva cibo, vestiti e altri materiali per donare ai residenti di Gaza, in collaborazione con un’associazione palestinese. Nonostante l’animosità della guerra e nonostante le narrative ufficiali che demonizzano l’altro, le donazioni sono arrivati dal tutto il territorio, compreso dai villaggi del sud d’Israele vittimi dei razzi di Hamas.

Dar buca alla paura

Stamattina ho trovato un passaggio alla spiaggia del Mar Morto. Ci voleva poco più di quaranta minuti e dal finestrino ho potuto ammirare le colline gialle del deserto. E’ l’inverno più secco di memoria: senza neanche un giorno di pioggia vera il lago di Tiberiade si è receduto e il Mar Morto continua a morire per mancanza di flusso dal fiume giordano. Questo si sa, ma ai miei occhi era difficile distinguere fra il deserto d’inverno secco e il deserto d’inverno arido. Comunque impressionante.

Sulla spiaggia ho trovato amici vecchi e nuovi, arabi ed ebrei, qualche chitarra e un paio di darbuca (no Alessà, non mi sto riferendo a te), il sole, abbastanza vento per creare delle belle onde sulla riva del mare, e le montagne della giudea da una parte e della Giordania dall’altro. L’evento ha cominciato ieri sera, ma nelle dodici ore che ero presente abbiamo mangiato insieme humus, tehina, insalata russa e altro e bevuto thé zuccherato, ci siamo riuniti in circoli per parlare del effetto che quest’ultimo capitolo del conflitto ha avuto su di noi. Poi, forse una quindicina di noi siamo andati a fare il bagno nei sorgenti accanto al mare. Che casino! Metti un piede a provare l’acqua e affondi nel fango fino al ginocchio. E’ troppo difficile toglierti e quindi, uno dopo uno, abbiamo lasciato sulla sponda la vergogna, le differenze e per alcuni anche i vestiti e siamo entrati nel fango fino alla bocca e diventati una banda di uomini e donne grigi e fangosi, ippopotami mediorientali, lanciando palle di fango, ridendo e urlando, e nel sole statue a quanto la vita è una ficata.

Nel mio circolo ci siamo chiesti perché le cose sono così brutte là, a casa, quando qui, al mar morto, sono così belle. Alla fine abbiamo invertito la domanda. Perché le cose sono così belle quando ci incontriamo così? Non abbiamo creato la pace, la pace già c’era. Anche se solo per un giorno, abbiamo smesso di inondarci di paure, di ascoltare i messaggi che ci dicono di odiare l’un l’altro. La pace non va creata, la stiamo ignorando giorno dopo giorno, concentrandoci sulle nostre paure e sulle cose negative. La rabbia, come dice il proverbio, è come essere pizzicato fino alla morte da un ape solo. La pace e la tranquillità esistono e sono disponibili, dobbiamo solo imparare a riconoscerle. Spero che anche voi in Italia potete trovare la vostra pace, che potete incontrare, post-fascisti e comunisti rifondati, cattolici e laici – forse alle terme di Saturnia – a guardarvi negli occhi, ascoltare l’un l’altro e a riconoscere quanto la vita è una ficata.

Ho lasciato la serata alle 21 dopo un circolo intorno al fuoco di accampamento accompagnato dalle canzoni in ebraico, arabo, inglese e spagnolo, preghiere ebraiche e musulmane, danze, narghilè e ancora thè. E poi, appena sulla strada per Gerusalemme, è cominciato, pian piano. Tip. Top. Tip. Top.

E’ arrivata la pioggia.

Cosa possiamo fare?

Ci sono due domande che sto ricevendo in questo periodo. La prima è cosa sto vedendo di prima persona in Israele e la seconda, forse retorica, è cosa possiamo fare di fronte a così tanta sofferenza.

Comincio con la prima. Questa volta Gerusalemme sta fuori della zona di conflitto e quindi le esplosioni e le bombe che ricordo dal periodo di 2000-2002 non ci sono, e neanche le sirene e i rifugi da quando cadevano i missili lanciati da Saddam Hussein nella prima guerra del Golfo. Devo dire però che questa settimana per errore la sirena ha suonato a Gerusalemme. Stavo prendendo un cappuccino e un cornetto a casa, godendomi la schiuma con consapevolezza, quando sentivo questo suono che significa l’arrivo di un razzo o un missile. Cercavo di rimanere calmo, ricordare dov’era il rifugio di quartiere, tenere lontana l’immaginazione. Ovviamente se io ci fosse stato durante la guerra del Golfo e se avessi nella memoria la distruzione, come ho la memoria degli attentati e dei morti del ’00-’02, sicuramente avrei avuto molto più difficoltà a rimanere calmo.

Oltre questo, anche se non sto vedendo la tragedia di Gaza, la guerra è evidente anche qui. Come non può essere? Le persone qui hanno vissuto guerre di difesa, guerre di scelta, attacchi suicidi. C’è chi pensa che la guerra non ha un impatto sulla personalità? Ma la guerra non è solo una cosa politica o storica, che comincia e poi finisce come una tempesta. La guerra continua, la tempesta continua, nelle paure di ogni individuo. Si esprime nel traffico, nei clacson e negli incidenti; nello sguardo che tutti danno ogni volta che una persone sale sul autobus, controllando se è un terrorista o no; si trova nella violenza domestica e nel buttarsi pienamente in cose “controllabile” come lavoro; e si trova nell’insoddisfazione generale, nelle paure represse sotto altre paure represse. Al mio parere, queste cose non sono solo i risultati della guerra ma anche le sue cause. Persone arrabbiate, frustrate, traumatizzate hanno difficoltà a non percepire il mondo in termini di minaccia e difesa.

Questa cosa è uguale per arabi che per ebrei. Le radici delle paure sono recenti e sono vecchie. Sono storiche e sono ideologiche, personali e famigliari. Israeliani e palestinesi, arabi e ebrei, hanno questo in comune: stanno annaffiando i semi della paura uno nell’altro ogni giorno della loro vita, in famiglia, a lavoro, per strada, in mercato e anche sul piano politico. Per questo motivo cerco di non interpretare gli avvenimenti politici come un gioco di scacchi: una parte fa questo, poi l’altra parte fa quello, poi la prima parte fa questo… giudicano o giustificando a “piacere”. Quando la gente si sente minacciata dall’altra parte e non ha degli strumenti per prendere un respiro e calmasi, arriva l’odio, la violenza e la guerra.

Forse è un po’ più chiaro perché chiedo agli italiani di non prendere una parte e invece di aiutarci a riconciliarsi. Con una zuppa già strasalata di paura e di odio, aggiungere più sale aggrava l’animosità. Vedo gruppi di europei e americani che vengono a sostenere la loro parte preferita, rafforzando l’impressione che l’altra parte è un mostro che non cambierà mai, quindi la violenza è giustificata. Sia gli “israestinesi” che gli “ameuropei” tornano a casa arrabbiati e portano la guerra nei loro cuori.

Nonostante il mio amore per le cose salate e amare, dai capperi al radicchio passando per la cicoria (mmmm la cicoria…), sono pronto a sacrificare i miei gusti per chiedere un po’ di dolcezza. E’ chiaro che, se gli israeliani e i palestinesi cantassero di più, guardassero di più il cielo azzurro, si aprissero di più ai loro cari in merito alle loro paure, farebbero la guerra di meno? Potete dire che sto parlando di utopia, ma non è più utopico che andare a una manifestazione di “sostegno”. Parliamo chiaramente. Questa guerra è fatta di tanta sofferenza e tanta rabbia e non c’è niente che possiamo fare che la fermerebbe tutta e subito. Cercare di farlo sarebbe tentare di forzare la pace su persone che non sanno neanche cosa sia la pace. Però, com’è vero che un atto di violenza aggrava la situazione un po’, un atto di amore, un atto di comprensione e di compassione, anche piccolo, aiuta la situazione.

Se non sappiamo neanche noi cosa siano la pace e la dolcezza come le possiamo offrire agli altri? Se vorremo che gli israeliani e i palestinesi prendono un respiro quando vedono la guerra di prima persona, dobbiamo essere capaci di farlo almeno quando leggiamo le notizie sulla guerra. La rabbia, l’odio e la paura già c’è l’hanno e sono molto più bravi di noi in questo. La pace, la stabilità e la gioia, sì, proprio la gioia, è quello di cui hanno più bisogno. E solo sviluppando la stabilità e la gioia dentro di noi possiamo aiutare, altrimenti stiamo aggiungendo ancora il nostro pizzico di sale.

Questo è già tanto. I percorsi che le emozioni prendono da una persona a un’altra e poi a un’altra sono molto più complessi di quanto pensiamo e se cercassimo di indirizzare la nostra pace a una certa zona sul pianeta, forse diventeremo delusi. Comunque, dopo aver lavorato per sviluppare la nostra pace c’è tanto che si può fare. Potete invitare israeliani e palestinesi in Italia per un ritiro di meditazione, ascolto profondo e rilassamento profondo, come fa Thich Nhat Hanh nel suo monastero Plum Village in Francia. Potete informarvi su altri progetti del genere come Seeds of Peace (Semi della Pace). Invitare “palestraeliani” alle sagre di paese, al palio di ferragosto, ai cori popolari? C’è chi parla di un “stimolo di pace” economico per Gaza o la necessità di finanziamento di progetti di educazione per la pace. Praticamente qualsiasi progetto nel quale potete far vedere agli israeliani e palestinesi, insieme o separatamente, cosa sia la pace, cosa sia la dolcezza, come godere e rendere omaggio al miracolo della vita, come si risolvono i conflitti, sarà di grande aiuto.

Anche se i risultati non siano immediati o totali è molto meglio che aggiungere più sale. Per fare tutto ciò però, chiediamoci se abbiamo approfondito abbastanza la nostra pace o se ci conviene essere in più contatto con la natura, con le nostre emozioni, se abbiamo tempo per praticare le tecniche della consapevolezza con persone d’esperienza.

Finisco con una citazione, sempre del maestro Thich Nhat Hanh, del suo libro “Essere Pace”. Mi dispiace che è in inglese: se qualcuno ce l’ha in italiano e mi manda la traduzione lo cambierò volentieri.

Many of us worry about the situation of the world. We don’t know when the bombs will explode. We feel that we are on the edge of time. As individuals, we feel helpless, despairing. The situation is so dangerous, injustice is so widespread, the danger is close. In this kind of a situation, if we panic, things will only become worse. We need to remain calm, to see clearly. Meditation is to be aware, and to try to help.

I like to use the example of a small boat crossing the Gulf of Siam. In Vietnam, there are many people, called boat people, who leave the country in small boats. Often the boats are caught in rough seas or storms, the people may panic, and boats may sink. But if even one person aboard can remain calm, lucid, knowing what to do and what not to do, he or she can help the boat survive. His or her expression – face, voice – communicates clarity and calmness, and people have trust in that person. They will listen to what he or she says. One such person can save the lives of many.

Our world is something like a small boat. Compared with the cosmos, our planet is a very small boat. We are about to panic because our situation is no better than the situation of the small boat in the sea. You know that we have more than 50,000 nuclear weapons. Humankind has become a very dangerous species. We need people who can sit still and be able to smile, who can walk peacefully. We need people like that in order to save us.


Buon fine settimana, auguro a tutti noi qualche passo verso la pace e la gioia.

Bar
Gerusalemme, Israele
Pianeta Terra

L’illuminazione di Elvira

Secondo il maestro Zen Thich Nhat Hanh e tanti altri, l’illuminazione non è limitata a certi santi o uomini straordinari che meditano per ore nella foresta. Certo che la meditazione è uno strumento molto efficace nel calmare le emozioni e sopratutto le abitudini mentali che ci accecano. E’ ovvio anche che il contatto con la natura è prezioso. Invece di “l’illuminazione” però ci sono tante illuminazioni, piccoli momenti di chiarezza in cui ci rendiamo conto di quali sono le nostre abitudini mentali e l’impatto che hanno su come percepiamo il mondo e come reagiamo al mondo. Con questa consapevolezza viene una trasformazione: sottile, naturale, quasi impercettibile, ma che più tardi rendiamo conto che le nostre relazioni sono un po’ più sane, che siamo un po’ meno arrabbiati/tristi/impauriti e che le persone che ci sono intorno l’hanno percepito in qualche modo e stranamente sono più felici loro.

Vi copio una lettera che ho ricevuto da Elvira, una praticante italiana molto coraggiosa per il suo percorso e per aver dato l’ok a pubblicarla.

Caro Bar,
sento di doverti ringraziare, dal profondo del mio cuore, per gli insegnamenti preziosi e sinceri, senza retorica, che sto ricevendo da te in questo ultimo periodo. Condivido pienamente quello che dici, la guerra è principalmente nei nostri cuori, non c’è ragione che tenga, la guerra è una condizione, uno stato mentale, che se non trasformato, genera altra guerra e altro dolore.

Stamattina ho iniziato la giornata in guerra. Ho litigato con mia madre e con mia figlia e sono arrivata in ufficio con il cuore in tumulto e i lineamenti alterati. Anche per me si trattava di rivendicare il diritto alla mia indipendenza, al rispetto dei “miei” confini. E ultimamente sto avendo problemi con la mia vicina di casa, per via del pavimento del mio bagno, che “confina” con il suo soffitto. Confini, sempre confini. Non posso quindi stranirmi quando alla televisione vedo immagini di guerra: è la stessa, solo portata un po’ più avanti, ma fatta della stessa natura.

Questo mi spaventa. Io, che mi ritenevo una persona tutto sommato quieta, calma, equilibrata, con le persone più care e vicine entro in conflitto. Per questo le tue parole stamattina sono state come un balsamo su una ferita. Amorevolezza, gentilezza, pazienza…

Posso portarti un po’ di capperi sotto sale?

Ti abbraccio, con gratitudine. A presto.
Elvira

Cara Elvira, grazie per la tua lettera. Dici che sei spaventata ma vedo che hai già trovato un po’ di sollievo. Vedo anche che sei già riuscita a trasformare un po’ della “durezza del cuore” che era dietro i conflitti che descrivi, trasmessa a quel momento da tanti momenti di durezza nella vita tua e nella vita della vicina di casa. Adesso, invece di continuare questa trasmissione stai già trasmettendo qualcosa di diverso. La pace la stai già facendo… per te stessa, per le persone che incontrerai oggi, per me e per tutte le persone con cui intersiamo.

Basta alla guerra in Italia

E’ un periodo veramente difficile. Vedo come il mondo si è diviso in due. Vedo le persone che si manifestano per “sostenere” una parte o un’altra mentre spesso “sostenere” vuol dire disumanizzare l’altro, israeliano o palestinese che sia. In Italia ho amici che protestano contro l’uccisione degli abitanti di Gaza e altri che difendono il diritto di Israele di difendersi, le manifestazioni sono separate, le posizioni sono opposte e l’animosità va a crescere. Stranamente, solo qui in Israele e in Palestina ho amici che partecipano in camminate per la pace dove israeliani e palestinesi insieme rinunciano alla violenza e cercano di vedere l’umanità l’uno nell’altro, passo silenzioso dopo passo silenzioso. Solo qui in Israele e in Palestina conosco ebrei e musulmani – religiosi e laici – che si riuniscono per affermare che la loro religione è una di pace e di coesistenza. Solo qui in Israele e in Palestina conosco gruppi di ex-soldati e ex-militanti che dicono “mai più” alla violenza e si mettono ad ascoltare l’un l’altro come esseri umani.

Non parlano nel nome di “Israele”. Non parlano nel nome di “Palestina”. Non parlano neanche nel nome degli “israeliani” né dei “palestinesi”. Parlano come persone – persone – che non vogliono più odiare i loro fratelli e le loro sorelle e sanno che queste etichette sono uno dei fattori principali del conflitto stesso. E fanno del loro meglio nonostante l’atmosfera difficile. Forse, stranamente, queste persone ci possono insegnare qualcosa sulla pace.

Sorelle e fratelli d’Italia, vi prego. Smettete la guerra in Europa! Qui, in Israele e in Palestina, ci sono persone che insistono perché siamo nemici. Ci insegnano solo le atrocità fatte dall’altra parte e solo gli atti d’eroismo fatti dalla nostra. Ci dicono che la lotta armata è solo una reazione alle ingiustizie dell’altro. Non lo voglio credere. Non lo posso credere. Abbiamo abbastanza rabbia e odio. Per favore, con tutta la forza di questo cuore che batte, con ogni lacrima su queste guance, non mandarci altro. Fate la pace. Riunitevi, di destra e di sinistra, a suggerire soluzioni pratiche e creative perché tutte le persone di questa zona siano sicure e libere: libere dalla guerra, dall’indottrinamento, dal militarismo. Non so se i vostri politici possono veramente influire sul governo israeliano perché smetta l’operazione militare. Non so se possono veramente influire su Hamas perché smetta i missili e i razzi. So, però, che anche se riescono, la vostra guerra d’oggi renderà peggiore la nostra guerra di domani. Se volete protestare contro la tragica e dolorosa guerra qui oggi, cercate il modo di farlo insieme perché avrete più successo così, e ogni vita salvata è un mondo intero. Certo che dovrete ascoltare l’altro, mettere in discussione le cose che credete che siano la verità assoluta… ma se così salverete la vita non vale la pena?

I vostri visi, visti sullo schermo del mio PC, sono pieni di dolore e mi dispiace tanto. Sappiate che la guarigione è possibile, alcuni qui lo sanno. Venite da me a Gerusalemme, basta che portate i capperi sotto sale e vi prometto una bella spaghettata alla puttanesca con le ulive del mercato. Andiamo insieme al Bereaved Families Forum, il “forum dei parenti in lutto” composto da palestinesi e israeliani che hanno perso un parente nel conflitto e adesso cercano di risolvere il conflitto con la nonviolenza. Poi, se portate i fiori di zucca ve li friggo alla romana prima di un incontro con Combatants for Peace, “lottatori per la pace”, ex-soldati israeliani e ex-lottatori di resistenza palestinesi. Con tutte le religioni rappresentate nel Jerusalem Peacemakers, “Gerosolimitani che fanno la pace” – un gruppo interreligioso per la pace e la giustizia – è sicuro che potremo festeggiare qualche festa ebraica, cristiana o musulmana insieme.

Non dovete fare la guerra fra di voi. Insieme, italiani, palestinesi, israeliani, possiamo creare un futuro bellissimo.

L’amore e l’azione

Caro Ken,

Grazie per i tuoi commenti e per le domande molto pertinenti. Ti capisco bene e mi identifico pienamente con la voglia di fare qualcosa o di dire qualcosa. E’ importante essere impegnato, la domanda che vorrei proporre è qual’è il mezzo più idoneo per farlo, sia per le persone che vorremo aiutare che per noi stessi.

Se non abbiamo una buona preparazione nel rimanere calmi, se siamo poco addestrati nella comprensione e la compassione, è veramente difficile che possiamo avere un impatto efficace nonostante le nostre migliori intenzioni. E’ probabile che invece torneremo da una manifestazione o un discorso pieni di rabbia e di odio, che poi trasmetteremo alle persone più vicine e più care a noi. Caro Ken, non vorrei che, cercando di portare la pace nel Medio Oriente tu finissi per portare la guerra dal Medio Oriente a casa tua.

Se invece, ci siamo impegnati nel creare una cerchia di parenti o di amici in cui c’è una buona pratica dell’ascolto profondo e del parlare amorevolmente, se abbiamo esperienza in prima persona di come si spegne il fuoco della rabbia e si trasforma la sofferenza, allora credo che avremo molto da offrire alle persone che soffrono, sia in Israele e in Palestina che a lavoro e in famiglia in Italia o altrove.

L’esperienza del Sudafrica è una grande ispirazione. Allo stesso tempo, la mia sensazione è che la capacità dei sudafricani a riconciliarsi dopo l’apartheid, il grande coraggio che ci voleva per superare la storia di discriminazione non è il risultato dell’indignazione arrivata dal estero ma di qualcosa di molto profondo nella cultura sudafricana. La situazione in Israele e in Palestina è diversa, credo. Le ideologie da tutte le parti sono fortissime e l’influsso di violenza e di discriminazione che arriva dall’estero nella forma di “sostegno” non è d’aiuto.

“Speaking out” contro una parte quando commette un’ingiustizia, poi contro l’altra quando né commetta una lei, secondo me, alimenta il conflitto. Israeliani e palestinesi si sentono ambedue isolati e vittime, quindi ogni critica fa sì che una parte si senta minacciata e l’altra giustificata nella “resistenza” o nella “difesa” armata, a seconda dei punti di vista.

Credo che siamo abbastanza creativi da trovare mezzi abili di azione comprensiva e compassionevole. Già il vedere che la cosa migliore per i palestinesi è che gli israeliani si sentano sicuri e che la cosa migliore per gli israeliani è che i palestinesi si sentano sicuri ci aiuterà molto a trovare le parole giuste. Con un gruppo di amici che ha già approfondito la comprensione potreste chiamare ai governi europei ad investire denaro, persone e volontà politica onde creare un sistema di controlli al confine di Gaza, per permettere alla merce di entrare ma con controlli di sicurezza. Infatti l’Europa si è già impegnata a farlo ma per mancanza di volontà politica, e forse per mancanza di sostengo popolare nei paesi europei, la cosa non è continuata dopo il coup di Hamas a Gaza. Se ci fossero state le manifestazioni a favore di un intervento del genere credo che la tragedia di questi giorni non sarebbe avvenuta. Potreste cominciare scrivendo una lettera d’amore a Berlusconi. Se non possiamo imparare a vedere anche lui con comprensione cosa ci aspettiamo dai palestraeliani? Detto così, facendo passi per risolvere i conflitti interni italiani, fra destra e sinistra, fra religioso e laico, sarebbe un grande gesto di pace e una fortissima lezione ai nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo.

Le possibilità non mancano e se le porte del cuore sono aperte anche le porte dell’azione lo saranno. Non possiamo cambiare quello che è successo ieri e con difficoltà possiamo per quello che succede oggi. Ma trasformando noi stessi e poi condividendo quella trasformazione con gioia e generosità, sono sicuro che è possibile avere un grande impatto nel lungo termine per tutto il mondo, e un grande impatto immediato per noi stessi.

Con grande affetto,
Bar

p.s. “L’amore e l’azione” è il titolo di un libro di Thich Nhat Hanh dove racconta la sua esperienza durante la guerra di Vietnam.

Una parola

Caro Dio,

So che normalmente preferisci che lettere di richiesta vengano scritte a un tuo rappresentante come Santa Claus, Gesù Cristo o il muro del pianto. Ma vorrei mandare quest’appello direttamente a te, qui sul blog, perché so che almeno tu lo leggi.

Caro Dio,

Mi serve una parola.

E’ quasi un centennio che da queste parti esiste un circolo vizioso di odio, paura e violenza. Le radici arrivano da più lontano: a livello ideologico l’idea dell’autodeterminazione dei popoli, un’invenzione europea che, guardando indietro alle guerre di rivoluzione e di successione e alle pulizie etniche, non era forse un granché; a livello psicologico l’incapacità di ascoltare o di cercare di capire l’altro, di poter prendere un respiro e un passo indietro di fronte alla rabbia, questa caratteristica è comune a tutti i membri di questa specie umana e il motivo per la sua esistenza lo saprai solo tu.

Ma un circolo lo è, e più uno cerca di colpevolizzare e disumanizzare una parte o un’altra, più uno prova a semplificare la storia in bianco e nero, più il circolo, la violenza e la tragedia si rafforzano. Guardo i passi avanti della Sudafrica, dell’Irlanda e degli Stati Uniti e mi chiedo perché non succede anche qui. Lì almeno l’idea di una nazione poteva servire come un punto comune, un modo di superare le differenze e vedere che siamo alla fine una cosa unica. Ma qui quell’idea nazionale ci divide. Mentre sia un bianco che un nero può essere sudafricano, qui un israeliano è un israeliano e un palestinese è un palestinese.

Non sto facendo nessun appello per un unico stato, anzi credo che quello ci porterà solo più conflitti e confusione. Ma ci dev’essere una qualche parola che può includere sia ebrei che arabi, israeliani che palestinesi. Qualcosa che dice, “noi, qui gli abitanti della Terra di Israele (o della Palestina, manca anche un nome comune per il territorio)”. Invece, ogni volta che parliamo della pace è fra due cose separate, e purtroppo l’illusione che siamo separati è uno dei fattori per cui crediamo che far male all’altro ci porterà più benessere o sicurezza. Anche con due stati, anche con due lingue, anche con tre, quatto, cinque religioni diverse, anzi, proprio perché c’è tutta questa bellissima diversità, abbiamo bisogno almeno di una parola che ci ricorda del nostro interessere. Così potremo dire, “noi, gli israestinesi, facciamo la pace fra tutti noi. Scegliamo noi, gli israestinesi, di vivere in armonia e rispetto fra individui e fra nazioni. Noi, gli israestinesi, abbiamo superato le difficoltà e le paure che avevamo costruito insieme, e insieme siamo riusciti a creare una nuova realtà”.

Mi dispiace ma “israestinesi” è proprio brutta come parola e non è neanche tanto efficace nel dare un senso di unità. Tu hai creato e dato forma a così tante cose di una bellezza straordinaria. Che ce dai ‘na parola in più?