L’identità della pace

Secondo la stima cauta dell’ONU, più di 8.000 civili sono stati uccisi nel combattimento dal 20 gennaio. Non attribuisce la colpa. Però Human Rights Watch (HRW), un gruppo di ricerca e lobbismo, accusa le Tigri di tenere in ostaggio gli abitanti del loro primo feudo – e di uccidere alcuni che tentano di fuggire. E dice che l’esercito “ha bombardato senza distinzione zone densamente popolate, compresi ospedali, in violazione delle leggi di guerra.”

Bagno di sangue in Sri Lanka, “The Economist” 14.5.2009

Sono parole agghiaccianti di un altro conflitto tragico di temi conosciuti: la violenza, la lotta, la resistenza, il terrorismo, la guerra, la paura. Qui si tratta di indù e buddisti che non riescono a risolvere le loro differenze, tamil e cingalesi intrappolati nella confusione e nel odio.

Questa volta però le manifestazioni sono poche – ho letto di una sola a Palermo febbraio scorso, della comunità tamil. Con alcuni eccezioni, nel resto d’Italia e in Europa le emozioni rimangono calme, i dibattiti sono più rari e meno vociferi e pare che non è cosa degna di attenzione popolare. Dove sono le folle nelle piazze, le bandiere, i slogan? Dove sono i sostenitori dei diritti dei tamil contro l’aggressione buddista? Dove sono i pro-cingalesi che affermano il diritto di uno stato di difendersi contro il terrorismo?

Potremo dire che ci sono differenze fra i due conflitti, quello israeliano-palestinese e quello tamil-cingalese. Potrebbe essere però che la differenza più significativa nella nostra reazione non si trova lì in Asia occidentale o sud-est ma in noi. Cos’è che ci coinvolge così tanto di certe temi e non in altre? Quando leggiamo di Sri Lanka forse sentiamo un coinvolgimento più attutito mentre quando si discute il Medio Oriente i nostri cuori battano forte. Sia noi che crediamo di essere filo-palestinesi che noi che crediamo di essere filo-israeliani comportiamoci in un modo simile. E il fatto che siamo così divisi, e divisi fra le eterne faglie politiche italiane, punta al fatto che sotto le discussioni politiche c’è qualcos’altra. I filo-tamil e i filo-buddisti si dividono secondo i partiti politici classici?

C’è una barzelletta cattolica-americana: “Come sai se uno è cattolico?” “Se va a messa?” “No.” “Se fa la confessione?” “No.” “Allora?” “Se si vergogna ogni volta che il papa apre la bocca.” Credete che un americano d’origini cingalese avrebbe una reazione emotiva, a favore o contro che sia? Un americano cattolico, pur essendo ateista o protestante ormai da anni, sente il cuore batte quando il papa dice qualcosa di controverso. Come noi. Senza esserne coscienti ci sentiamo coinvolti. Ci identifichiamo con qualcosa.

La maggior parte degli italiani però non sono d’origini ebraiche, palestinesi, tamil o cingalesi. E quindi? L’identità è una strana cosa e non per niente razionale. Per tutta la vita siamo stati insegnati a prestare attenzione a certi temi, a identificarci con certe situazioni e persone. Siamo addestrati a provare emozioni davanti a certi simboli e non davanti ad altri. I motivi sono tanti, dall’antica disumanizzazione di un popolo alla guerra fredda; motivi storici, politici e anche personali e psicologici, dove c’entrano tutt’altro che gli oggetti della nostra attenzione. Il risultato è che siamo più propensi a riconoscere la sofferenza di alcuni e più propensi a chiudere il cuore davanti ad altri.

Ma non è questo proprio il problema? Là in Asia, come in altre parti del mondo, i conflitti violenti esistono perché le persone non riescono a identificarsi con gli altri. Questo è la base dei molti iniziativi di dialogo: imparare ad aprire l’orizzonte e il cuore alla esperienza del altro. Se vogliamo veramente aiutare, possiamo cominciare già adesso a sviluppare questa capacità. Noi filo-israeliani possiamo impegnarci a capire meglio le realtà dei palestinesi (e non “il punto di vista dei palestinesi”), e noi filo-palestinesi possiamo fare lo stesso con le realtà degli israeliani, nonostante che crediamo di già sapere tutto e di capire tutto. E possiamo tutti imparare ad aprire il cuore alle persone che siamo abituati a ignorare. Se non lo possiamo fare noi, che speranza c’è?

Facendo questo potremo scoprire tante cose. Uno, che la capacità di identificarci con più persone ci aiuterà a risolvere tanti conflitti nella vita quotidiana. Due, sapendo quanto è difficile sviluppare questa capacità, sentiremo più pazienza e compassione per gli altri che, come noi, hanno tanta strada da fare. Tre, anche se non possiamo risolvere tutti i conflitti subito, stiamo già diffondendo meno sofferenza nel mondo. Quattro, avendo gli occhi e il cuore aperti a chi ignoravamo l’esistenza, può essere che troveremo modi di aiutarli che non avremo visti altrimenti. Forse c’è qualcuno vicino a noi che ha bisogno del nostro aiuto.

Durante la guerra a Gaza ho provato a mettermi nei panni degli altri a 360°, dai giovani israeliani chiamati alla fronte ai politici e militari di Hamas e Israele, ai residenti di Gaza e del sud di Israele. Metterti nei panni di qualcuno non vuol dire accettare le cose che dice: a volte puoi sentire compassione per qualcuno che soffre così tanto che non riesce a identificare la radice della sua sofferenza. Già vedere che ci sono radici – e che non si tratta di un mostro – ci da la possibilità di cambiare le radici. E’ vero che facendo questa pratica non ho fermato la guerra. Credo comunque che è stato di beneficio e che grazie alla pratica ho diffuso la sofferenza in qualche misura ridotta dal solito, e i benefici non sono sempre immediati. Credo che rinforzando i propri pregiudizi e incapacità di sentire la compassione non risolve il conflitto neanche.

Ripeto. Se non possiamo noi imparare ad aprire gli orizzonti, verso chi siamo abituati a vedere come mostri o verso chi non siamo abituati a vedere proprio, non possiamo sperare che i nostri fratelli che vivono le guerra lo possono fare. E facendolo noi come esempio lo stiamo facendo anche più facile per loro.

L’ultima cosa. Che sono queste foto di scatole e scatole? Dopo la guerra sono andato ad aiutare un gruppo di israeliani che raccoglieva cibo, vestiti e altri materiali per donare ai residenti di Gaza, in collaborazione con un’associazione palestinese. Nonostante l’animosità della guerra e nonostante le narrative ufficiali che demonizzano l’altro, le donazioni sono arrivati dal tutto il territorio, compreso dai villaggi del sud d’Israele vittimi dei razzi di Hamas.

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